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MARTEDÌ 23 OTTOBRE 2012

Dall'idea di "Pietro" a "Pietro".

 

Come è nato il progetto e come è diventato un film.

 

Di Andrea Parena

 

La storia produttiva di Pietro, quando noi della BabyDoc Film ne siamo entrati a far parte, era già cominciata, almeno idealmente. Daniele Gaglianone aveva pronta una prima sceneggiatura, scritta nel 2007, e ne aveva parlato con Gianluca Arcopinto. L’idea di realizzare un nuovo film di finzione di Daniele, quindi, era concreta, ma sospesa, perché in quel momento tutte le attenzioni erano rivolte al documentario Rata Nece Biti.

 

Per quanto mi riguarda, la storia della realizzazione di Pietro inizia con un’immagine sfocata. Il sonoro è un’eco indistinta che, ad un certo punto, ha cominciato a rimbalzare tra le mura di BabyDoc. Eravamo tra la primavera e l’estate del 2008. Si lavorava intensamente al montaggio di Rata Nece Biti, ma ogni tanto poche parole o uno scambio di battute tra Daniele ed Enrico Giovannone, seduti alla postazione di montaggio, alludevano a questo nuovo soggetto. Emergevano elementi, brandelli di un’altra storia che cercava un fuoco.

 

Io non ricordo quando ho letto la prima versione della sceneggiatura. Le nostre teste erano ancora troppo immerse nell’avventura bosniaca per leggere lucidamente ciò che avevamo davanti agli occhi. Però ricordo benissimo la sera in cui tutta questa vicenda ha cominciato, almeno per me, ad assumere i contorni della realtà, il momento in cui le ombre vaghe sono diventate un’immagine a colori, con dei contorni, seppure completamente sfocata.

 

La sera era strana, una riunione casalinga dopo-cinema. Il film era nientemeno che Le straordinarie avventure di Mr. West nel Paese dei bolscevichi. Un film comico muto del noto regista sovietico Lev Kulesov, del 1924, musicato dal vivo. La pellicola racconta in chiave burlesca le disavventure di un cowboy catapultato dal West nella Mosca sovietica. Questa è la prima suggestione “politica” che fa da sfondo alla nascita di Pietro. La seconda è che la sera era il 5 novembre 2008, poche ore dopo l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti.

 

Forse è stata anche quest’aria di speranza e cambiamento planetario, il soffio di un nuovo corso che avrebbe spazzato via le nostre angosce, che ci ha spinto a riunirci (io, Enrico Giovannone e Francesca Frigo di BabyDoc insieme a Daniele Gaglianone), dopo il cinema bolscevico, per parlare sul serio del film. Lì abbiamo pensato che Pietro si poteva fare veramente, che si poteva far diventare l’immagine a fuoco. Era l’idea di un film sull’Italia che ci circondava, su una società sempre più crudele. Una parabola nera che restituisse la sensazione di solitudine che si prova ad essere disarmati, in un campo dove l’unica legge valida è quella del “tutti contro tutti”. Pietro cominciava a delinearsi, quella sera: Pietro era questa creatura disarmata.

 

Non è stato facile capire subito cosa Daniele volesse raccontare: ogni tanto però riconoscevamo Pietro per strada, nelle colonne dei giornali, in noi stessi, e tutto diventava più chiaro. Questa sensazione si rispecchia perfettamente nel film, che adesso vediamo finito. Pietro è un film scuro, ma è tutt’altro che oscuro. E’ una presa di posizione netta e chiara e parla apertamente del mondo che ci sta davanti. Questa visione così definita, così “a fuoco”, è stata l’elemento fondamentale che ha reso possibile credere di fare veramente il film.

 

Un’altra tappa importante è stata una riunione con Arcopinto in un bar a Torino, durante una pausa di lavoro di Gianluca, che si trovava in città per un altro film. Alla riunione c’era anche Ernaldo Data, che poi avrebbe partecipato alla produzione. Quella riunione era fondamentale perché era l’occasione di parlare con Gianluca Arcopinto, dal momento che senza di lui non saremmo andati da nessuna parte. Parlammo della fattibilità del film, di ciò che ognuno poteva mettere in campo in termini di mezzi e lavoro, stilammo una prima lista di figure da coinvolgere. Alla fine della riunione la sensazione fu quella di una macchina che si era messa in moto.

 

Da quel momento Daniele ha lavorato molto alla sceneggiatura, che è cambiata completamente. Era necessario precisare questa storia scura, suonare soltanto “le note necessarie”, renderla lo specchio della visione lucida che stava alla base. Pietro, storia di una società fatta di relazioni nette e impietose, forse fotografia di un momento storico, cronaca di un mutamento verso il peggio, è stato fin dall’inizio un film politico. Daniele era determinato a farlo. Se poi fosse stato fatto nel modo che avevamo in mente, con una struttura produttiva piccola e nuova al cinema di finzione, forse la sua forza sarebbe aumentata. Proprio perché era un film difficile, non allineato, doveva vivere della sua anomalia ed essere fatto nonostante l’industria del cinema funzioni in un altro modo. Anzi proprio per questo.

 

Per noi era l’occasione di lavorare su un film di finzione, che sentivamo vicino e che arrivava nel momento stesso in cui cominciava a fiorire la bella avventura di Rata Nece Biti. Quello che è successo nei mesi successivi, tra l’inverno del 2008 e la primavera 2009, cioè la vittoria del documentario al Torino Film Festival e poi la conquista del David di Donatello, hanno dato una botta di fiducia. Probabilmente quella che ha permesso di mettere a punto la squadra, nei vari reparti, che avrebbe fatto il film. Era una sfida, un’avventura nuova per noi ma anche per chi aveva molta più esperienza di noi nel cinema di finzione. Un certo clima di eccitazione intorno al progetto, il forte desiderio di molte persone coinvolte di lavorare con Daniele Gaglianone, la fiducia riposta in lui, erano il collante che teneva insieme un gruppo pronto a partire.

 

Per impegni importanti di Daniele sarebbe risultato molto difficile girare il film se avessimo superato novembre (2009). Forse avremmo ancora avuto una possibilità nei primi mesi dell’anno nuovo, ma era meglio non correre rischi. Così la pensava anche Gianluca Arcopinto, che ha dato la disponibilità e la spinta definitiva perché fossimo nelle condizioni di girare tra ottobre e novembre. Negli ultimi mesi le cose sono andate molto velocemente, tanto che fino alla fine si è dovuto ragionare intensamente sulle questioni di linguaggio e sulle questioni tecniche, a cominciare dal decidere finalmente con quale mezzo girare.

 

L’idea di partenza, da un punto di vista produttivo, era quella di un film veramente radicale, da realizzare con i mezzi che normalmente si usano per i documentari. La ristrettezza dei mezzi, però, doveva essere “spinta” a estreme conseguenze, a scelte di stile e di linguaggio in un certo senso anti-cinematografiche, o diversamente cinematografiche. Per esempio c’è stato un momento in cui, parlando con Daniele su come impostare il film, pensavamo, come suggestione, a film girati in video, tipo Medea di Lars Von Trier.

 

Questi discorsi creavano accese discussioni anche tra me, Enrico e Francesca, cioè BabyDoc Film. C’era chi pensava che rinunciare ad un lavoro accurato, cinematografico, per esempio nelle scelte di fotografia, avrebbe impoverito il film. Chi, dall’altra parte, sosteneva che proprio quella povertà sarebbe stata la sua forza, che, fregandosene completamente di come un film “andrebbe fatto”, e portando all’estremo gli aspetti da “cinema diretto”, sarebbe nato, con quella sceneggiatura, un oggetto assolutamente inedito sulla scena del cinema italiano. Più, però, si avvicinava il momento di girare, più ci si rendeva conto che sarebbe stato importante poterlo fare avendo a disposizione tutta la gamma di possibilità tecniche e fotografiche che un’impostazione cinematografica, seppur a basso costo, poteva permettere.

 

La soluzione per coniugare la massima resa qualitativa con un budget basso era girare con la cine-camera digitale Red. La spinta finale e risolutiva verso questa scelta l’ha data, giustamente, il direttore della fotografia Gherardo Gossi. Visto il risultato a film finito è stata sicuramente la scelta migliore. Quello che poteva essere un esperimento radicale, in una forma che esasperasse l’urgenza della storia, è diventato un film vero, tecnicamente impeccabile, fotograficamente bellissimo, senza perdere nulla della sua valenza politica, che non sta soltanto nel contenuto del film, in quel “fascismo prossimo venturo” a cui la storia allude, ma nella stessa storia produttiva, che dimostra come si possa realizzare un film con tutte le cure che un lungometraggio di finzione richiede, sul piano della tecnica e del linguaggio, anche con un budget molto basso, se se ne condividono la necessità e l’urgenza. E se l’urgenza del progetto fa sì che attorno ad esso si coaguli un legame di solidarietà che è ciò che permette di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Se Pietro è la storia di relazioni basate sulla violenza, dentro una società in cui il disprezzo striscia e si insinua sempre più a fondo e l’unico criterio è quello della prova di forza, dove non esiste alcuno spazio per la condivisione, la storia della realizzazione del film è l’esatto opposto. Nelle settimane di preparazione, poi, soprattutto, in quelle delle riprese, ognuno ha dato molto di più di quello che era chiamato a dare. Da Gherardo come direttore della fotografia, a chi, magari, si è prestato a fare il runner o l’aiuto elettricista, anche se non erano esattamente i ruoli che gli competevano. Questo è il motivo per cui siamo riusciti a girare Pietro.

 

Un discorso importante, per quanto riguarda ancora il processo di passaggio dall’idea del film al film, penso che lo meriti il lavoro degli attori. Pietro Casella e Francesco Lattarulo, “nella vita”, compongono un duo comico attivo in teatro e televisione, e avevano già avuto due piccole parti nel film precedente di Daniele, Nemmeno il Destino. Fabrizio Nicastro (Nikiniki) invece era uno dei due protagonisti del film. Pietro, Francesco e Fabrizio vivono nella stessa palazzina, familiarmente detta “la villa”, una sorta di comune metropolitana che, di volta in volta, può trasformarsi in laboratorio teatrale oppure in sala prove musicale, a seconda dell’ispirazione dei suoi abitanti. Quel luogo è stato fondamentale nella costruzione del film. E’ stato importante nell’ideazione, perché certe situazioni quotidiane, sketch, battute, fino ad una cadenza tipica di una certa periferia torinese e di un certo contesto, sono entrati fin dall’inizio nella costruzione dei personaggi. Poi durante le riprese, per esempio perché il set dell’appartamento di Pietro e Francis è stato ricavato nel vero appartamento di Pietro Casella. Ma soprattutto è stato importante perché lì si è svolto tutto il training fatto dagli attori con Daniele. Tutto questo mentre al piano inferiore, nello studio di Lina Fucà, si preparavano scenografie e costumi del film. Entrare “in villa” nelle settimane precedenti le riprese, significava vedere davanti agli occhi il film che nasceva. Quello che Daniele aveva in mente rispetto ai caratteri e alla recitazione è stato messo a punto con un lavoro quotidiano insieme agli attori per due mesi o più. Nella “villa” i personaggi del film, giorno dopo giorno, prendevano forma, voce e corpo. Sottolineo questo aspetto perché penso che sia stato molto importante nel percorso di realizzazione del film, e non solo per la qualità del film, ma anche, e in modo determinante, sull’ottimizzazione del tempo, che veniva sfruttato al massimo anche quando era poco, per esempio durante le riprese.

 

Questo lavoro quotidiano, svolto dentro la “villa”, dove i tre protagonisti vivevano insieme anche dopo le prove, dove intanto, in una stanza vicina, venivano preparati i loro costumi, dove Daniele aveva grande familiarità e libero accesso, ha davvero permesso che la vita dei personaggi del film si incrociasse con quella degli attori che li avrebbero interpretati. Quando è stato il momento di girare e gli attori sono arrivati sul set (a cominciare dalla casa di Pietro), tutto è stato molto naturale, i personaggi vivevano sulla scena senza intoppi, la sovrapposizione dei piani era totale.

 

Il fatto che i personaggi principali, Pietro in particolare, fossero stati concepiti da Daniele, fin dall’inizio, modellandoli sulle caratteristiche degli interpreti e che gli interpreti condividessero uno spazio di vita, ha fatto sì che Nikiniki, Francis e Pietro cominciassero a vivere e ad interagire in quegli spazi ben prima dell’inizio delle riprese. In una serata qualsiasi era facile sentire Francesco imitare Francis o Francis dialogare con Nikiniki. E’ stato un processo di mimesis progressivo, che ha portato, quasi in modo naturale, a passare dall’idea all’incarnazione della storia nel corpo degli attori.

 

Con loro Daniele ha fatto un lavoro quotidiano, tecnicamente accuratissimo, in una dimensione quasi “comunitaria”, di forte condivisione. E’ un aspetto di solidarietà e complicità che penso possa essere allargato a tutto il gruppo, tecnico ed artistico che ha lavorato a Pietro, e che ha caratterizzato in tutti i momenti la realizzazione del film.

MARTEDÌ 23 OTTOBRE 2012

Il viaggio di "Rata Nece Biti".

 

Di Andrea Parena

 

Pubblicato nel volume Rata Nece Biti, la guerra non ci sarà AA. VV. ed. Derive Approdi(allegato al dvd del film).

 

L'idea di realizzare un documentario nell’ex-Jugoslavia è nata dall'incontro con Michele Biava e Francesco Miorin dell'associazione Nema Frontiera. Le “riunioni” con loro avvenivano durante lunghe serate al bar, in cui ci raccontavano della loro attività di volontariato in Bosnia. I discorsi che questi incontri stimolavano, risvegliavano in noi l'interesse per una vicenda che da tempo avremmo voluto approfondire. Contemporaneamente tracciavano la mappa di un luogo che era rimasto una sorta di buco nero nel cuore dell'Europa. Un luogo da cui confusamente continuava a risuonare un’eco violenta, un’eco proveniente dallo spazio profondo, come se davvero fosse generata nelle profondità cosmiche e non provenisse invece da una terra tanto reale e così vicina a noi.

La sensazione di un posto in cui il tempo ha smesso di passare e il passato (di guerra) fatica a diventare davvero passato, quella sensazione che avremmo provato tutti così distintamente durante i viaggi in Bosnia per le riprese del documentario, forse già riverberava nell'eco che cresceva dai racconti. Ma in quel periodo, l'estate del 2007, non avevamo per nulla le idee chiare, su che cosa fare. Per noi, prima di tutto, cominciava la fase dello studio e delle ricerche, e la prima cosa da fare era un viaggio in Bosnia. Comincio da qui perché penso che la particolarità di un documentario come Rata nece biti, dipenda anche dall'anomalia del processo produttivo che ha portato alla sua realizzazione.

 

All'inizio, quindi, c'era la decisione di realizzare una ricerca e approfondire le storie e le vicende di cui eravamo venuti a conoscenza grazie a Nema Frontiera. C'era BabyDoc Film, la nostra piccola casa di produzione, le nostre attrezzature, pochi soldi necessari al mio viaggio in Bosnia insieme ai ragazzi dell'associazione. Non c'era una vera produzione, non c'era una troupe, non c'era un regista, non c'erano finanziamenti esterni o contributi economici al progetto, non c'erano accordi con televisioni o distributori.

 

Del primo viaggio ricordo l'immagine che più mi ha colpito, l'arrivo col vecchio furgone rosso di Michele nel piccolo villaggio musulmano di Suceska, sui monti, tra i boschi sopra Srebrenica. L'oscurità totale che ci avvolgeva faceva risaltare in modo epico la scena di fronte a noi. Tra le piante di un piccolo frutteto, una famiglia era radunata intorno ad un fuoco vivo, su cui era posato un grande paiolo. Nel paiolo bolliva il succo delle mele, che si sarebbe trasformato sulla fiamma in pecmes, la gelatina di frutta che, in Bosnia, mischiata alla panna acida, è un dolce tipico dei contadini. Un bicchiere di quel succo fresco fu la prima delle tante cose che in Bosnia mi vennero offerte, in quel viaggio e poi nei successivi. Ma fu anche qualcosa, per noi, di più importante, perché da quel gesto prese il via un rapporto che, passando per i quattro viaggi successivi, ci avrebbe portato a realizzare una parte fondamentale del documentario: l'intervista a Mohamed, il pastore, seduto di fronte alla vallata in cui aveva combattuto nell'Armija,l’esercito governativo bosniaco. La famiglia intorno al fuoco era la famiglia di Mohamed, l'anziana mamma, la moglie, il fratello Nijaz, le bambine. E fu lui ad offrirmi il succo di mele.

In quel viaggio non estrassi quasi mai la camera dalla sua custodia, era chiaro che la disponibilità di quelle persone era per me un privilegio da coltivare, e in nessun modo potevo tradire quell'accoglienza per l'ansia di tornare in Italia con qualche immagine approssimativa, acerba. Durante il viaggio fummo anche a Tuzla, a Bratunac, a Srebrenica naturalmente, a Sarajevo dove conobbi Zoran, il ragazzo con cui si aprono i racconti di Rata nece biti.

 

Tornai con poche riprese e un po' di fotografie, parlai a lungo con Enrico degli incontri che avevo fatto e delle cose che avevo visto, il risultato fu la decisione definitiva di fare il documentario. Il problema era come: come continuare il progetto e sostenerne la produzione. Tanto per cominciare realizzammo un piccolo librettino, un resoconto del viaggio corredato da qualche foto e da una scheda relativa ai fatti di Srebrenica. La nostra idea iniziale era di ambientare il documentario in quei luoghi, nel villaggio di Suceska in particolare, con Mohamed come protagonista, perché la sua storia ci sembrava esemplare.

 

Mohamed, prima della guerra, aveva studiato a Sarajevo, nella scuola per diventare sumar. Aveva seguito la sua vocazione, perché fin da bambino sognava di fare quel mestiere. Lo sumar, nei villaggi di montagna jugoslavi, era colui che si occupava della salvaguardia del territorio boschivo e gestiva l'utilizzo delle sue risorse, ad esempio assegnando ai boscaioli gli alberi da abbattere per fare legname e sorvegliando sul loro lavoro. Lo sumarcomincia la sua giornata di lavoro al mattino presto, a piedi percorre per il giorno intero i boschi, individuando le piante da abbattere o le aree da proteggere, rilevando i danni arrecati dall'opera dell'uomo o dagli agenti atmosferici, dalle frane e dagli incendi. Con la vernice spray segna sul tronco gli alberi da abbattere, ogni sumarè identificato da una vernice di diverso colore. Poi annota tutto su un taccuino, che ripone dentro una borsa di cuoio, la borsa dello sumar.

La carriera di Mohamed fu interrotta dallo scoppio della guerra. Mohamed dovette posare la borsa e imbracciare il kalashnikov, percorrendo quegli stessi sentieri di montagna e combattendo in quegli stessi boschi, in cui ora correva la linea del fronte e i soldati bosniaci costruivano le trincee per contrastare le milizie serbo-bosniache di Karadzic e Mladic, spalleggiate dall'esercito federale.

Mohamed fu tra quelli che riuscirono a scampare all'eccidio di Srebrenica, è uno dei sopravvissuti alla cosiddetta “marcia della morte”. Fino al 2001 ha vissuto, insieme alla sua famiglia, in un campo profughi. Nel 2001 fu tra i primi a tornare a Suceska, ora dentro la Republika Srpska, per ricostruire il villaggio, completamente raso al suolo. Ha ricostruito la sua casa e si è preso un gregge da accudire, perché, come tutti gli abitanti del villagio, Mohamed è un pastore. Il suo sogno era di tornare ad essere, un giorno, lo sumar del villaggio.

Proprio nel periodo in cui noi eravamo in Bosnia per il primo viaggio, Mohamed aspettava che gli venisse di nuovo ufficializzato l'incarico. Finalmente sarebbe tornato ad essere losumar, con la divisa verde impermeabile e il taccuino. Ciò che però gli mancava, per essere un vero sumar, come “prima della guerra”, era la borsa di cuoio. Il primo progetto, da cui poi è nato Rata nece biti, si chiamava proprio La borsa dello sumar.

 

Il secondo viaggio doveva avere come destinazione Suceska, con l'idea di cominciare a lavorare insieme a Mohamed. Ci venne in aiuto un amico, Daniele Mittica, che ci mise a disposizione i soldi necessari per affrontare il viaggio. Ma intanto era successa una cosa fondamentale.

Ad Enrico era venuto in mente di contattare Daniele Gaglianone, per vedere se il progetto poteva interessargli. Ci incontrammo e raccontammo a Daniele ciò che avevamo fatto, spiegandogli l'idea che avevamo. Daniele ci ascoltò e poi ci disse che erano dieci anni, da un suo soggiorno a Sarajevo nel '98, che voleva fare un documentario in Bosnia. Naturalmente fummo molto contenti di quella notizia, Daniele ormai era dei nostri. Purtroppo non avrebbe potuto partecipare al secondo viaggio, previsto per ottobre, a causa di un suo impegno in Argentina. Noi saremmo partiti, questa volta con una troupe, e al nostro ritorno avremmo ragionato sul materiale per realizzare un “promo” del progetto.

 

Del secondo viaggio, incentrato soprattutto su Suceska, ricordo la “prova di coraggio” cui Mohamed ci sottopose. Nel percorso di conoscenza reciproca che abbiamo attraversato per conquistare la fiducia e la complicità di Mohamed, quella storia cominciata con un bicchiere di succo di mele, questa è stata una tappa decisiva. Spesso, a cena a casa sua, davanti alla pitao alla pecora arrosto, o fuori con il gregge, avevamo parlato (sempre attraverso il tramite del nostro grande interprete Francesco) della natura e dei boschi, di gran lunga il suo argomento preferito. Cercavamo di spiegargli che ci sarebbe piaciuto molto poterlo riprendere durante il suo lavoro. Mohamed, allora, volle mettere alla prova il nostro amore per la natura. Ci diede appuntamento al mattino presto per una “passeggiata in montagna”. Quello che ne seguì è qualcosa di cui oggi possiamo sorridere, guardandola come un'esperienza grottesca e tragicamente fantozziana, ma che allora, nella realtà, vivemmo a tratti con un sentimento di vera paura. Abbiamoseguito Mohamed per un'intera giornata nei boschi, tra dirupi, torrenti e resti di trincee, fin dove passava la linea del fronte, sempre più stremati e consapevoli dei rischi che con lui stavamo correndo (quella zona del fronte è una delle più minate della Bosnia e i percorsi rasentano e scavalcano burroni scivolosi e strapiombi che affrontavamo privi di allenamento, dell'equipaggiamento adeguato e con tutte le attrezzature da ripresa addosso). 

La “prova di resistenza” affrontata insieme a Mohamed è stata un momento importante nella “storia di quell’ultima inquadratura”, quella in cui lo sumarracconta la sua esperienza seduto di spalle sul prato, e che, in realtà è arrivata solo nell’ultimo viaggio in Bosnia, a marzo 2008, cinque mesi dopo la “scampagnata”. Se penso a tutti gli incontri nei mesi con Mohamed, e li vedo filtrati dall’esperienza del documentario, essi mi appaiono esattamente come i diversi capitoli o passaggi di un’unica storia. Sta in questa storia la costruzione dell’inquadratura.

 

Nessuna inquadratura di Rata nece bitiè stata “scelta” da noi. I luoghi in cui sono state girate le “interviste” sono tutti luoghi in cui ci siamo trovati casualmente insieme ai protagonisti,  oppure scelti dai personaggi stessi, come luoghi significativi per loro. Questo penso risponda molto bene alle intenzioni di Daniele, il cui atteggiamento era quello di un regista che era lì per ascoltare le persone e non per farsi dire ciò che voleva sentirsi dire (o per vedere ciò che lui voleva vedere). Se “manca” una manipolazione dello spazio, una costruzione sul luogo dell’inquadratura, è perché l’inquadratura è stata “costruita” nel tempo. Quando siamo saliti per l’ultima volta a Suceska e abbiamo fatto l’ultimo tentativo di farci raccontare da Mohamed la sua storia, le premesse non erano delle migliori. Si tergiversava nel cortile di casa senza trovare una soluzione. Ad un certo punto Mohamed si è rivolto a noi, dicendoci che sarebbe andato a pascolare il gregge. Ci chiese se volevamo andare con lui.

Daniele cominciò a seguirlo con la camera, ma ad un certo punto, sul sentiero, si fermò. Questo momento si vede molto bene nel documentario, il piano sequenza si stoppa mentre Mohamed e le pecore proseguono. E’ il momento in cui Daniele si è detto “Che cazzo ci sto facendo qui?”. Poi qualcosa gli ha suggerito di proseguire. Quando siamo arrivati sul pascolo abbiamo trovato Mohamed seduto esattamente nella posizione in cui lo vediamo nel documentario. Non abbiamo fatto altro che posizionarci dietro. Lui ha aspettato che lo facessimo, ha acceso una sigaretta e ha cominciato a raccontare. Per mille motivi, quello era il luogo in cui aveva deciso che avrebbe fatto il suo racconto.

Non c’è nulla di “costruito” in quell’inquadratura, se non, naturalmente, la scelta di un punto di vista (da dietro) e di un campo largo. Ma dentro quell’inquadratura e quindi dentro la scelta di Mohamed, ci sono il succo di mele di agosto, la “prova di resistenza” di ottobre, la brucellosi ovina che ha colpito in inverno molte persone del villaggio, compreso Mohamed, e tante altre cose.

 

Per tornare alle vicende produttive del film, bisogna riparlare di ottobre 2007. Al ritorno da Suceska abbiamo messo mano al materiale girato con Mohamed, soprattutto riprese fatte nei boschi e con il gregge. Con queste abbiamo montato un breve promo che abbiamo portato a Roma, per mostrarlo a Gianluca Arcopinto. Dopo la visione e qualche parola Gianluca si è detto disponibile a partecipare al progetto. Per noi, naturalmente, è stato un passaggio importantissimo. Con l’ingresso di Daniele prima e di Gianluca poi il nostro progetto diventava  una cosa seria.

Grazie all’intervento di Gianluca Arcopinto abbiamo potuto affrontare il terzo viaggio, il primo davvero di “produzione” del documentario. C’era una troupe completa pronta a fare sul serio, partivamo da Torino di notte, sul vecchio Ducato di Nema Frontiera, finalmente anche con Daniele. Ora stavamo davvero andando a girare il nostro documentario.

Naturalmente gli imprevisti erano dietro l’angolo. Già alla frontiera croata abbiamo temuto per la prima volta di dover tornare indietro. I doganieri non volevano far passare la nostra attrezzatura da ripresa. Dopo tre ore di trattative e di gelo siamo riusciti a ripartire, scortati fino al confine bosniaco da un’auto della dogana croata, previo il pagamento di una tassa da 400 euro. La seconda volta in cui abbiamo pensato di dover tornare indietro fu già la mattina successiva, quando, sotto la neve a Tuzla, pronti per cominciare la prima giornata di riprese, la mia mano destra (ero l’operatore), fu chiusa violentemente ed ermeticamente nella portiera del furgone. Il danno fortunatamente fu inferiore all’impressione che l’episodio destò nei testimoni. Potevamo continuare, anche se i presagi non erano i migliori.

Mezz’ora dopo questo episodio entravamo nel centro di raccolta dei resti rinvenuti nelle fosse comuni dell’ICMP. L’impressione di trovarci in quel luogo, lo sconcerto, la difficoltà di dover riprendere quel posto, parlare con quei dottori, ci portarono immediatamente (credo che fosse un sentimento condiviso) in un’altra dimensione. In quel momento le persone che si trovavano lì ed il documentario che avremmo realizzato avevano superato un confine.

Ricordo che in quel periodo Daniele ci stimolava spesso rispetto alla considerazione di come cambiasse, trovandosi lì, il concetto di distanza. Eravamo in un posto geograficamente vicino ma al tempo stesso remoto, un luogo che necessariamente ti strappava ai tuoi usuali riferimenti e la tua stessa sensibilità ne veniva scossa profondamente.

L’ingresso all’ICMP e le ore che ne seguirono furono il varco di quel confine, entravamo in un posto doloroso, in cui eravamo andati volontariamente, e non saremmo potuti più tornare indietro a cuor leggero, come forse avremmo ancora potuto fare poche ore prima, all’uscita dalla locanda Rudar.

La visita al centro di raccolta fu un primo assaggio della realtà che ci saremmo trovati di fronte, una lezione su quello che sarebbe dovuto essere il nostro atteggiamento rispetto ad essa. Avevamo deciso di affrontare le riprese nel modo meno invasivo possibile, ce lo eravamo imposto evitando di portarci da Torino anche solo un illuminatore, la nostra attrezzatura era ridotta al minimo. Ora cominciavamo a renderci davvero conto di quanto rispetto, rigore e discrezione ci richiedeva la realtà che volevamo raccontare. Di nuovo l’atteggiamento di Daniele, che era lì prima di tutto per “mettersi a disposizione”, per far sì che le persone con cui parlavamo non avessero mai l’impressione di essere strumentali alla costruzione, in ripresa e poi nel montaggio, di un discorso “altro”, quello dell’autore, si manifestava come l’unico atteggiamento giusto.

 

Ai tempi della Borsa dello sumar, la nostra intenzione era quella di non affrontare direttamente la guerra, ma di raccontare la quotidianità della Bosnia di oggi, attraverso il lavoro e le comuni vicende di persone come Mohamed, sopravvissute alla guerra. Pensavamo che in quelle condizioni, comunque, il passato da cui provenivano sarebbe comunque emerso dalle azioni, dai fatti, così come emergeva dai volti di quegli uomini. In qualche modo la guerra sarebbe stata una sorta di sfondo traslato nel tempo. Era una scelta che, da una parte, contemplava un certo pudore rispetto allo scavare nelle ferite lasciate dal conflitto, dall’altra, però, implicava una volontà di controllo “narrativo” su una realtà che invece ancora dovevamo affrontare, mettendoci in gioco. Fu poi la stessa realtà a imporci di cambiare strada, la coscienza di trovarci in un luogo in cui quello che noi interpretavamo come passato, in realtà era un tempo che non riusciva a passare e continuava ad incombere sul presente. Lo stesso titolo che riecheggiava sui giornali in prima pagina, e che sarebbe diventato il titolo del documentario, “La guerra non ci sarà!”, era una rassicurazione declinata al futuro data ad un popolo che viveva delle paure e delle tensioni del passato. Parlando molto con Daniele, man mano che continuavamo a lavorare con lui, capivamo che era impossibile non affrontare direttamente il tema della guerra, perché il tema della guerra “era” la realtà e l’attualità che avevamo sempre di fronte in Bosnia. Era però una realtà penosa e soverchiante, che chiedeva ascolto e grande lucidità, ma non poteva essere piegata e modellata ad esigenze che stavano fuori da essa.

Così abbiamo cambiato rotta, facendo un deciso passo indietro rispetto alla scrittura del documentario, e limitandoci ad organizzare, anche abbastanza sommariamente, gli spostamenti e gli incontri che avremmo fatto durante i viaggi in Bosnia. Se l’incontro con Mohamed è stato il risultato di un lungo processo, altri “capitoli” sono scaturiti da un contatto più immediato ed estemporaneo con la realtà. In questo caso il tempodella ripresa coincideva con l’esperienza di trovarsi in un determinato luogo e con determinate persone, con tutte le scosse, emotive e “stilistiche”, che questo comporta. Lavorare con Daniele portava spesso a girare le interviste nel momento stesso in cui incontravamo le persone, senza sopralluoghi e discorsi preliminari. Era un altro modo per metterci al riparo dal rischio che la costruzione del racconto, a priori e a posteriori, si imponesse sulla realtà rappresentata. La passeggiata con Hajra Catic, dalla piazza fino ad entrare in casa sua, non è stata preparata. Abbiamo incontrato Hajra al ritorno dal paese e l’abbiamo accompagnata, fino ad entrare davveroin casa sua, dove non eravamo mai stati, per la prima volta. Allo stesso modo non conoscevamo Sasha e non eravamo mai stati al bar Sing Sing. Come penso si veda, l’inquadratura circolare che finisce sulla locandina di Bruce Willis intrappolato nella cella di Sin City, non è stata preparata. Hajra Selimovic, in teoria, non doveva nemmeno essere un personaggio del documentario. E’ la signora che ospitava la troupe in casa sua a Srebrenica. I suoi racconti sono quelli che lei ci faceva in cucina, mentre, ogni mattina, facevamo colazione insieme a lei.

Il desiderio di non intervenire in modo arbitrario sulla costruzione del racconto si è riflesso in modo radicale nel montaggio, in cui le lunghe interviste sono state mantenute integre e separate, non alternando le affermazioni in modo da “montare” il discorso dell’autore. Sulla scelta di dare al documentario un taglio radicale, che sapevamo avrebbe reso poco “vendibile” il lavoro, siamo stati subito tutti d’accordo. Quando, a riprese finite, abbiamo esaminato il materiale, e Daniele ha affermato che il documentario sarebbe potuto durare tre o quattro ore, non l’abbiamo presa come una battuta. D’altra parte il documentario è stato realizzato in totale libertà, dal momento che non avevamo nessun committente e nessun accordo televisivo, non dovevamo accontentare nessun altro se non noi stessi. Questo atteggiamento rigoroso e allo stesso tempo un po’ anarchico ha fatto sì, alla fine, che ne risultasse un lavoro onesto nei confronti del pubblico. Una delle cose che ci hanno fatto maggiormente piacere, è stata il riscontro positivo (proprio sul piano della coerenza e dell’onestà) che abbiamo ricevuto da spettatori provenienti dall’area ex-jugoslava e da chi, anche per lavoro, si occupa di quei luoghi e della loro storia.

A giugno/luglio 2008 avevamo un montato di quattro ore, realizzato con il sostegno del Piemonte Doc Film Fund, che abbiamo mostrato ad alcuni amici e addetti ai lavori. Fin da allora ci ha stupito positivamente che il documentario fosse accettato con favore e la sua durata, sulla carta insostenibile in relazione a temi così “pesanti”, passasse comunque in secondo piano. A Luglio presentammo al Festival di Locarno una versione rivista di tre ore. Lì è cominciata la vera vita di Rata nece biti. Anche se era presentato fuori concorso il documentario ha ottenuto l’attenzione della stampa (pur non avendo noi alcun ufficio stampa). Il suo percorso è poi proseguito in modo significativo al Festival di Torino. La selezione nella cinquina e poi il David di Donatello sono stati per noi un premio del tutto inaspettato, una conclusione  clamorosa di questa storia “fuori formato”. Molto di ciò che significa realizzare oggi, con ostinazione, un documentario come questo, penso possa essere riassunto in quello che è successo a Roma il giorno della presentazione dell’edizione 2009 del Festival di Locarno.

Mentre Frederic Maire, direttore del Festival, apriva la conferenza stampa esprimendo il suo orgoglio nell’aver ospitato, nell’edizione precedente, Rata nece bitia Locarno, un responsabile di una TV ci comunicava la risposta negativa della sua azienda alla proposta di messa in onda del documentario, premurandosi di precisare di non riuscire a capire come un prodottocosì sbagliato potesse aver vinto il David di Donatello.

LUNEDÌ 01 OTTOBRE 2012

Andrea Parena su "Nozze d'Agosto"

 

 

Dopo le "Giornate degli Autori" a Venezia pubblichiamo alcune riflessioni di Andrea sulla realizzazione di "Nozze d'Agosto".

 

 

La realtà che avevamo di fronte, fin dal soggetto scelto, le feste di matrimonio, è una realtà di rituali che si ripetono, più o meno, uguali a se stessi. Questo si è riflesso nella struttura narrativa del film, dove il prima e il dopo del tempo reale, lineare, sono diventati il prima e il dopo di un tempo che si ripete. I viaggi in auto del dj Max da una festa all'altra, le varie proiezioni al cinema dei filmini, le feste in cui cambiano non il luoghi, ma le “location”, in quanto palcoscenici di una continua messa in scena del quotidiano. Così, in questa struttura ciclica, in qualche modo rituale, ci siamo presi la libertà di dare un tempo proprio ad ogni personaggio, fino, per esempio, a far “durare” tutto il tempo del film una singola chiacchierata al tavolo del bar o un singolo “sound check” del cantante Nico.

 

Ho conosciuto Roberto dopo aver visto il sito di “Matrimovie” su Internet. Mi aveva colpito la sua idea di proiettare dentro i cinema di paese i filmini di matrimonio, così ho deciso di conoscerlo e sono andato a Molfetta, dove ho incontrato tutto il suo entourage di professionisti delle feste di nozze. Mi è subito sembrato un mondo molto interessante e abbastanza distante dal mio da farmi venire il desiderio di buttarmici dentro e raccontarlo.

 

Dal punto di vista visivo, la scelta è stata quella di identificare un linguaggio unitario nel corso di tutta la narrazione. La camera, quasi sempre su cavalletto, costruisce quadri della quotidianità dei personaggi. A volte più ampi, come le riprese di un romantico filmino matrimoniale, dentro una cava che sembra il set di un film western, oppure stranianti, come il lavaggio della prima auto alla benedizione di un autolavaggio, altre volte minimi e quotidiani, come il montaggio di una consolle da dj dentro una grande sala ricevimenti vuota. Sempre, almeno nelle intenzioni, brani di racconto conclusi nello sguardo e coerenti con l'architettura generale, in cui si è cercato, anche quando si seguivano delle derive o delle tracce secondarie, di offrire sempre la medesima dignità di sguardo a ciò che succedeva vicino a noi. Con questo intendo quello sforzo minimo tale da costituire un punto di vista anche sui fatti più superficiali o più effimeri, o forse soprattutto su questi, dal momento che il film racconta, credo, una realtà più per come essa si mostra, che per come è realmente.

 

Ci sono documentari in cui si affrontano temi precisi che si conoscono bene, su cui ci si è fatti un’idea approfondita, in questo caso, per esempio, si poteva costruire un film sull'enorme business del matrimonio, sul dispendio di denaro in tempi di crisi, sull'indebitamento degli italiani a causa dei matrimoni, sul conformismo o tante altre cose. In altri casi, invece, fare un documentario può somigliare al varo di una barca che prende il mare, o più semplicemente ad un incontro in un posto nuovo. Nel fare Nozze d'Agosto abbiamo voluto, tutta la troupe, abbandonarci a questo incontro, come un ragazzino di prima elementare che, per la prima volta, va a trovare al pomeriggio il nuovo compagno di banco, vede la sua casa, le stanze, il giardino, i suoi giochi, si stupisce e intanto prende confidenza con un mondo nuovo.

 

Sono contento di quello che è scaturito dall'incontro tra noi come “documentaristi” e i personaggi del film. Come tutti i documentari, ma forse come tutti i film in generale, Nozze d'Agosto è il racconto dell'incontro tra chi filma e chi viene filmato. In questo caso l'incontro tra due realtà è anche l'incontro tra due immaginari.

 

Da una parte c'eravamo noi della troupe che, giorno per giorno, ci aggiravamo per la città, sceglievamo dove fermarci con la nostra attrezzatura da ripresa, chi, cosa e come riprendere, con tutte le nostre idee sul filmare che ci eravamo portati da casa. Dall'altra c'era il palcoscenico delle feste di nozze coi suoi attori, i nostri protagonisti, ben consapevoli di recitare la loro parte dentro uno spettacolo popolare. La messa in scena c'era già: erano Max, Michelangelo, Roberto, Nico, ad indossare da professionisti il loro abito ed entrare in scena ogni giorno, il regista di film di nozze Mauro a mettere e mettersi in scena per mestiere. Noi non facevamo altro che girare attorno a questo mondo fermandoci ogni tanto a coglierne dei momenti, un po' come degli aspiranti rabdomanti che vagano in un luogo che ogni giorno diventa più familiare, cogliendone e restituendone brani.

 

Il tempo è un tempo circolare, racchiuso tra le feste di nozze e la festa sacra della Madonna dei Martiri. E' un tempo di riti che si ripetono, ma è anche il tempo dei nostri protagonisti che ogni giorno rivestono i panni dei loro personaggi. Abbiamo fatto tornare un'unica sessione di prove del cantante Nico più volte in diversi momenti del film, per rimarcare un tempo che ritorna su se stesso, che gira come una giostra, non parte da nessuna parte e non ha una destinazione precisa. Non delinea i passaggi di una tesi predeterminata.

 

Paradossalmente la realtà da raccontare si ritraeva e spariva man mano che prendevo confidenza con quel mondo. Non c’è praticamente intimità nei personaggi di Nozze d’Agosto, nulla si rivela di loro, del loro privato. Il dj Max in auto che viaggia di notte da una festa all’altra rappresenta forse il momento di maggiore intimità del film, e non a caso è un momento di solitudine. Mi sarebbe piaciuto dare l’idea, e non so se l’ho fatto, di un piccolo mondo/girotondo, che si sarebbe sfumato, dissolto nel momento in cui si fosse fermato il perno che lo faceva girare.

 

Uno dei primi giorni di riprese, seguendo un’immagine mentale, siamo andati a riprendere una giostra coi cavalli meccanici, un carosello che gira su se stesso. L'immagine un po' sospesa del carosello mi sembra riassuma bene il senso del film. La giostra coi cavalli che girano, alla fine, non è stata montata, però è rimasta la musica che diffondeva nel parco giochi, che abbiamo registrato ed è diventata la “colonna sonora” del film.